Nella lingua originale degli insegnamenti buddhisti di presenza mentale, e in molte altre tradizioni e culture non occidentali, non esiste la distinzione fra mente e cuore. Nella lingua pali, per esempio, si usa una sola parola per mente e cuore. Leggiamo queste parole di Corrado Pensa, esperto di buddhismo e quindi anche di Mindfulness:
“Partiamo dallo stato di contrazione mentale, o contrazione del cuore, che è la stessa cosa. La pratica della consapevolezza ha come primo vantaggio quello di farci incontrare la contrazione della mente-cuore, di farcela riconoscere e di metterci in grado di sviluppare una certa dimestichezza con questa dimensione. Ciò è fondamentale, poiché, se non facciamo il primo passo di familiarizzarci con i frequenti momenti di chiusura della mente-cuore, non avremo la possibilità di andare verso la sua apertura. Una parte di noi vorrebbe tenersi la contrazione e, insieme, sviluppare grandi aperture: è una contraddizione. Come mai vogliamo tenerci la contrazione? Perché siamo abituati, perché non la vediamo, oppure perché a volte ci sembra “giusta”, perché siamo di cattivo umore, perché Tizio ci ha mosso delle critiche e quindi…
Questo è messo radicalmente in discussione dal cammino interiore, e dunque, progressivamente e naturalmente, ci convince sempre meno. Possiamo voltarsi indietro e guardare con sgomento ai tempi in cui ci compiacevamo delle nostre rigorose chiusure di cuore e di mente. Allora, in virtù della pratica nel suo senso più ampio, ci sentiamo sempre più motivati a esplorare la condizione di chiusura, di frequente chiusura. In vari modi, da diverse angolazioni, ci richiamiamo al centro, all’essere presenti, svegli, per toccare con mano la condizione di chiusura e dunque di sofferenza. Allora, quale che sia la causa dello stato di chiusura, la priorità della pratica è di entrare in contatto con questa forma di sofferenza.”
Molte della nostra sofferenza, come è evidente durate i gruppi Mindfulness, non deriva da ciò che ci accade all’esterno, ma dallo stato di chiusura ai suoi effetti su di noi; per esempio, cerchiamo di non sentire che le parole di una persona ci hanno fatto soffrire, oppure di accorgerci che siamo effettivamente arrabbiati. Nel campo della mindfulness questa reazione è spesso chiamata evitamento. Questo stato di chiusura, di “inibizione dell’azione” come lo ha chiamato in campo neurofisiologico Laborit, è una delle basi dello stress cronico e quindi della genesi di molte malattie organiche, psicosomatiche e mentali.