Nel precedente post sui blocchi psicosomatici collettivi abbiamo visto che il trauma centrale per il sé psicosomatico sia il non riconoscimento, ovvero l’esperienza di non esistere per gli altri come individui dotati di unicità, auto-organizzazione, sviluppo spontanei. Quando non viene riconosciuta la nostra vera natura, l’anima incarnata che si esprime attraverso la nostra coscienza, la prima disfunzione che si genera è il blocco del cuore.
L’esperienza più dolorosa della nostra vita, quella che ci fa credere che non c’è posto per noi al mondo, che non possiamo quindi essere spontanei, vitali, liberi, genera prima di tutto la chiusura della sede della coscienza centrale di sé, che viene vissuta come situata al centro del petto.
La chiusura del cuore corrisponde quindi al blocco della nostra individualità, ma si esprime anche come blocco del sentimento di far parte dell’umanità, di essere parte della vita su questo pianeta, della capacità di amare e di essere amati, di empatia, come mancanza di senso della nostra vita.
L’esperienza della chiusura del cuore è tanto comune da rendere quasi onnipresente la percezione che l’esistenza, la società, la famiglia, siano senza amore, rendendo evidente alla persona di non aver ricevuto sufficiente affetto, comprensione, riconoscimento personale, valorizzazione.
Sentirci amati per ciò che siamo veramente ci fa sentire pieni di valore, riconosciuti, ci unisce al mondo generando una sensazione di fluidità nel muoverci nel mondo, ci fa sentire sorretti, per cui con il cuore chiuso percepiamo che la vita sia fredda, senza senso, ostile, divisa fra “me” e “gli altri”.
Ci percepiamo soli contro l’intero universo, perché ad una vita che ha come centro il proprio sé psicosomatico si sviluppa l’attaccamento ad un centro fittizio di identità chiamato ego, personalità, identità sociale, che è basato sull’emozione della paura.
Se non siamo amati, sorretti, voluti per come siamo, se perdiamo la connessione vitale con l’esistenza, perdiamo la connessione con la fiducia fondamentale nella vita, quindi all’unione del sé con l’ambiente si sostituisce la divisione fra noi e il resto, alla percezione di non avere una localizzazione temporale e spaziale si sostituisce la percezione di avere un corpo finito, che nasce e morirà, una storia personale con un inizio e una fine.
La paura diviene la risposta all’esigenza di controllare l’ambiente e la nostra sopravvivenza, o meglio la nostra identità fittizia.
Il cuore si chiude quindi per mancanza di fiducia fondamentale, e al centro del sé si sostituisce una identità fittizia generata dalla mente, parziale invece che totale, insoddisfacente, impaurita, orientata al controllo delle immagini di sé che produce. La persona vive una vita fatta di immagini della realtà, piuttosto che della realtà stessa, come se stesse osservando cartoline e le scambiasse per reali paesaggi, ma non si rende conto di questa condizione.
Chiudendo il cuore, che deriva dal mesoderma e che rappresenta il ponte tra corpo (endoderma) e mente (esoderma), si frammenta l’unità psicosomatica, e quindi si inibisce la comunicazione fra le nostre parti istintive con quelle mentali, fra le nostre emozioni profonde e i nostri pensieri. Nella frammentazione una parte di questo sistema tende a dominare le altre: alcune persone privilegiano una identità fittizia dominata dalle emozioni (cuore), altri dalla mente (testa), altri dagli istinti (pancia).
Il cuore genera, quando è aperto, il senso dell’essere, la gioia di vivere, il senso della vita, l’amore come unione con gli altri, con l’ambiente. La chiusura del cuore, oltre a portare la persona nella direzione opposta a questa, chiude i flussi energetici dell’area del petto e soprattutto del diaframma, con conseguenti alterazioni sul piano digestivo, metabolico e sessuale, aumento delle emozioni di paura, rabbia, tristezza, impedisce alla persona di pensare e vivere con il cuore.
Le persone con il cuore chiuso vivono la propria vita principalmente attraverso la testa, ragionando, accumulando nozioni, fantasticando. Non sentono di poter unire la propria sessualità al proprio cuore e alla propria testa, per cui il proprio sesso viene giudicato, negato, inibito, oppure deprivato di amorevolezza. A volte la persona crede di vivere una sessualità amorevole, quando in realtà sta vivendo una sessualità forzatamente colorata di idee fantastiche.
Vivono il proprio corpo quasi come un oggetto da manipolare, usare, far usare, decorare con muscoli tonici, vestiti, operazioni chirurgiche, oppure da abbandonare per non percepirlo più con intensità.
Viviamo in una civiltà violenta e senza etica in cui prevalgono elementi che caratterizzano la vita animale. Il potere del più ricco, il possesso del territorio, l’aggressività vero i più deboli, secondo una legge implicita che potrebbe tradurre così: “sono tanto più forte quando più domino”. Veniamo da una storia caratterizzata da guerre, domini politici e religiosi, divisioni fra i popoli. I bisogni economici e politici hanno prevalso sui diritti umani, il rispetto della vita umana, sulla spiritualità naturale dell’uomo.
Una società senza cuore è una società che non riesce ad evolversi dal piano della competizione sociale, la paura e la rabbia che gli altri suscitano. L’evoluzione è verso una comprensione amorevole, compassionevole della nostra unica condizione umana e del desiderio di ognuno di noi di essere felice. Alla comprensione è privilegiato il giudizio, all’affetto la serietà o la violenza, alla spontaneità i ruoli sociali.
Vorrei chiudere questo approfondimento con una esperienza di vita di Jung, riportata nel libro Ricordi, sogni, riflessioni:
“Fu quella la prima volta che ebbi l’occasione di parlare con un non-europeo, cioè con un non-bianco. Era un capo dei Pueblos Taos, un uomo intelligente, dell’età di quaranta o cinquant’anni. Il suo nome era Ochwìa Biano (Lago di Montagna).
Potei parlare con lui come raramente ho potuto con un europeo. Certamente era prigioniero del suo mondo, così come un europeo lo è del proprio, ma che mondo era!
Parlando con un europeo ci si incaglia sempre nei banchi di sabbia delle cose conosciute da tempo ma mai comprese; con questo indiano invece la nave galleggiava su mari profondi, sconosciuti. E non si sa che cosa sia più affascinante, se la vista di nuove spiagge o la scoperta di nuove vie d’accesso a ciò che ci è noto da sempre e che abbiamo quasi dimenticato.
‘Vedi’ diceva Ochwìa Biano ‘quanto appaiono crudeli i bianchi. Le loro labbra sono sottili, i loro nasi affilati, le loro facce solcate e alterate da rughe. I loro occhi hanno uno sguardo fisso, come se stessero sempre cercando qualcosa. Che cosa cercano? I bianchi vogliono sempre qualche cosa, sono sempre scontenti e irrequieti. Noi non sappiamo cosa vogliono. Non li capiamo. Pensiamo che siano pazzi.’
Gli chiesi perché pensasse che i bianchi fossero tutti pazzi.
‘Dicono di pensare con la testa’ rispose.
‘Ma certamente. Tu con che cosa pensi?’ gli chiesi sorpreso.
‘Noi pensiamo qui, disse, indicando il cuore.
M’immersi in una lunga meditazione. Per la prima volta nella mia vita, così mi sembrava, qualcuno mi aveva tratteggiato l’immagine del vero uomo bianco. Era come se fino a quel momento non avessi visto altro che stampe colorate, abbellite dal sentimento. Quell’indiano aveva centrato il nostro punto debole, svelato una verità alla quale siamo ciechi.”
Carl Gustav Jung
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